Lo “storpio” sono io

Silvia Micioni, Cuneo
Accettare di essere storpi è il compito più arduo e mai finito del nostro stare al mondo. Quando ho iniziato a confrontarmi con il brano dello storpio (Atti 3,1-10), ho subito pensato di identificarmi con quegli ignoti che portano lo storpio e lo pongono davanti al tempio.

Forse anche per il lavoro che faccio. Essendo docente di sostegno, aiuto i ragazzi con disabilità e difficoltà, li accompagno, li sorreggo, li porto. Eppure, leggendo e rileggendo il brano, ho iniziato a provare un senso di disagio, quasi una “crisi di identità”: lo storpio sono io. Accettare di essere storpi è il compito più arduo e mai finito del nostro stare al mondo. Stiamo al mondo come esseri storpi, come esseri deboli. Questo è il nostro lato più profondamente sensibile e umano.
Sono storpia quando non accetto che altri mi accompagnino, mi aiutino, mi sorreggano. Sono storpia quando giudico “ubriachi” coloro che cercano di spiegarmi, parlando la mia lingua, avvicinandosi al mio sentire, che cosa significa Bellezza e che cos’è l’Amore. “Altri invece li deridevano e dicevano: «Si sono ubriacati di vino dolce»” (Atti 2,13). Sono storpia quando lascio da parte la Parola e non solo. Trascuro anche il servizio, perché presa e concentrata da ciò che manca, proprio da quella storpiatura.
Così, rimango ferma ad aspettare che qualcuno lanci la monetina giusta per quella giornata… “Domandò loro l'elemosina… aspettandosi di ricevere qualche cosa” (Atti 3,3). Troppo fissa sulla terra, non attendo a dovere lo sguardo che rialza, la mano che solleva e accompagna a ringraziare.
Alzare gli occhi, dunque, per accettare, da esseri deboli, uno sguardo non giudicante ma di benevolenza e accoglienza: quello sguardo di Luce…

Condivisione

FacebookTwitterWhatsappPinterest